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Ciao a tutti ragazzi e ben tornati nella mia piccola stanza. Il Natale è la mia festa preferita da sempre, adoro l’atmosfera che si crea in città dove ogni angolo e ogni negozio è illuminato da tante lucine e addobbi di ogni genere. Adoro il clima freddo che ti impone di portare maglioni pesanti e ancora meglio se si tratta di maglioni a tema. Adoro l’albero illuminato nel salone di casa, riporvi comodamente sotto i regali incartati e guardare vecchi film cult natalizi.
Quest’anno ho voluto creare un evento a tema sul mio profilo Instagram che ho deciso di chiamare #inaChristmasmood: ogni venerdì un consiglio libresco a tema Natale, ma dato che se ne vedono tanti, ho pensato di abbinare la lettura consigliata ad un dolce tipico natalizio, un tè caldo e una canzone da mettere come sottofondo durante la lettura.
Il tutto raccontato nel mio solito modo un po’ sognante e romanzato, sperando di riuscire a trasmettervi almeno una delle emozioni che trasmettono a me queste letture ed il Natale.

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Il primo libro che vi propongo è una lettura candida e leggiadra. Una lettura che solamente chiudendo gli occhi per sfiorarne la copertina, ti fa sentire la sensazione fredda e soffice della neve sotto le dita:

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La regina delle nevi ed altri racconti. Perché infondo la magia del Natale sta proprio qui, nel mettersi durante il crepuscolo sotto le coperte calde e lasciarci illuminare dal bagliore delle lucine attorno all’albero. Tra le nostre mani La Regina delle nevi pronta a trasportarci in lande ghiacciate, ma che allo stesso tempo scaldano il nostro cuore di bimbi con le sue favole. E la ciliegina sulla torta che completa questo quadretto natalizio? Beh non è una torta, ma un cupcake con una guarnizione al burro che tanto ricorda una delle montagne innevate che fa da sfondo alla nostra lettura. Il guantino di lana in cima alla guarnizione in burro, ci aiuta a combattere quella sensazione di freddo polare che solo la magia di un libro sa donare. La ciliegina però, per essere realmente completa, necessita di musica che solletichi la nostra fantasia da lettori e con La regina delle nevi l’abbinamento perfetto può essere solo la cover di Lea Michele di Do you want ti build a snow man? presa dal capolavoro Frozen. Nella nostra tazza, tè alla vaniglia e finalmente ora è Natale.

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Quando pensiamo al Natale ormai la nostra immaginazione ci rimanda tutti gli anni al classico più famoso a tema Natalizio: Canto di Natale. Perché anche se lo conosciamo a memoria, anche se sappiamo a menadito ogni battuta di tutti i personaggi, non c’è cosa più bella che sentirsi come a casa durante le festività natalizie.
Ogni anno ci facciamo intenerire da Bob e il suo stipendio da fame e il suo sfruttamento1F4003FC-BA44-4571-861D-FC7F14F3FEF3 anche durante il giorno della Vigilia, ogni anno ci facciamo trasportare dall’entusiasmo di Fred che non si perde mai d’animo persistendo nel voler invitare a cena uno zio avaro e senza cuore e ogni anno rimaniamo estasiati dall’apparizione di Marley e degli altri fantasmi del passato-presente-futuro. Ma più di tutti, vogliamo rileggere di lui, di Ebenezer Scrooge. Del suo aspetto che riflette alla perfezione la sua personalità: un vecchio ricco borghese, magro e gobbuto per via del troppo tempo speso a contare il suo denaro. Perché lo amiamo così tanto da tornare da lui ogni anno? Perché Scrooge è come noi, semplicemente un un uomo che ha commesso degli errori… Com’è quel detto? Sbagliando si impara! La vera essenza del Natale è racchiusa in queste pagine e quindi rileggiamole ancora e ancora, questa volta accompagnandole dalle Cartellate di Natale, dolce pugliese: esteticamente brutte e bitorzolute, come il nostro Scrooge e proprio come lui dal sapore asprognolo per via della guarnizione al vino cotto. Ma attenzione, imparando a conoscerle ed assaporandole per bene sentiremo arrivare la dolcezza e il calore proprio come Il Canto di Natale e i suoi protagonisti sanno fare. Fatevi cullare infine dalle noti di I Wish It Could Be Christmas di Alala e L’Orchestra Cinematique e da un caldo tè di mirtilli e frutti misti. E ricordate “Il Signore ci benedica tutti quanti”.

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Ai bambini il Natale appare come la festa più magica che ci sia, io stessa sono cresciuta con questa sensazione che non mi ha mai abbandonata nemmeno da adulta. Ricordo che il 24 sera si andava dalla nonna per il cenone della Vigilia e insieme ai miei cuginetti aspettavo impaziente lo scoccare della mezzanotte perché alla porta avrebbe suonato quel simpatico vecchietto un po’ paffuto, dalla barba argentata, il vestito rosso e un sacco pieno di regali.
3E52B7BB-5432-4914-8F9E-3C94CB807AFERicordo perfettamente che l’attesa di Babbo Natale per noi bambini era infinita, i minuti sembravano ore interminabili che non passavano mai. Ma quando poi finalmente arrivava l’ora di aprire la porta per farlo accomodare, tutti noi piccoli avevamo quel bagliore negli occhi che solo Babbo Natale sa donare, ignorando chiaramente che si trattava in realtà di un nostro zio travestito… Ma importa davvero che fosse tutta una messa in scena? La cosa più bella d’altronde non è donare la magia e la fantasia ai bambini, soprattutto a Natale? Tolkien forse lo aveva capito bene, tanto da fingersi ogni anno Babbo Natale inviando lettere con una scrittura tremolante ai figli raccontando loro di tutte le sue avventure insieme a quel pasticcione dell’Orso Bianco del Nord, gli Elfi della neve, gli Gnomi Rossi e tanti altri. “Lettere da Babbo Natale”, una raccolta di tutte le letterine affrancate dal Polo Nord e inviate ai piccoli Tolkien per più di vent’anni, con tanto di disegnini realizzati direttamente da Babbo (Tolkien) Natale, delle avventure e disavventure e arricchite con alfabeti inventati dallo stesso Tolkien per far prendere vita a quei suoi strambi aiutanti di Babbo Natale, grazie alla fantasia. E quale modo migliore di leggere queste dolci lettere se non gustandosi dei biscotti di Natale allo zenzero e un bicchiere di latte? E grazie alle note in sottofondo di “Welcome Christmas” di Danny Elfam, sentirete in lontananza l’avvicinarsi della slitta più magica che ci sia.

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A Natale puoi fare quello che non puoi fare mai. A Natale ci si sente sempre ancora un po’ bambini e dato che in questo periodo tutto è possibile, allora la soluzione per tornare alla nostra infanzia forse è più semplice di quel che sembra.
Quante volte avete immaginato che i vostri giocattoli prendessero vita? Animati come8BE76199-AA87-44C1-9494-727CB716CA4E per magia e insieme a loro vivere grandi avventure inimmaginabili. Vi sembra ancora solamente una favola? Con Lo schiaccianoci, le storie che popolavano la vostra immaginazione non vi sembreranno più delle semplice favole, l’avventura sarà finalmente realtà. In un famoso film viene detto “A furia di raccontare le sue storie, un uomo diventa le sue storie” e se si tratta di quelle meravigliose avventure avute da bambini, se si tratta dello straordinario viaggio assicurato con Lo schiaccianoci, allora per voi questo Natale sarà la storia più magica che vivrete. Come sempre fatevi deliziare da un dolce, il torrone bianco con le noci è il perfetto compagno di avventure. Concludete la favola con le note di Fall of me di Andrea Bocelli e sarà un Natale a lieto fine.

Buon Natale,
PluffaCalderone

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Quando penso al Natale, sono tantissimi i miei ricordi di bambina. All’epoca non vivevo dove abito ora, casa mia vecchia era molto piccola ma pur di portare un po’ di clima natalizio i miei presero un alberello alto quasi quanto me all’età di 6 o 7 anni.
Lo decoravamo con tanto amore e per tutto dicembre dava luce a quel salotto dove guardavo sempre le mie videocassette preferite. Su Instagram ho indetto il mio solito sondaggio per la scelta di questo Moviecult natalizio e nonostante la mia pellicola preferita a tema Natale sia SOS fantasmi (di cui parleremo comunque senza ombra di dubbio prima o poi), il popolo ha decretato vincitore Mamma ho perso l’aereo.
Chi non si è mai immedesimato nel piccolo Kevin McCallister, il quale dimenticato erroneamente a casa da genitori, si ritrova da solo durante le feste natalizie e si da alla pazza gioia tra schifezze, film vietati ai minori, giochi pericolosi e due ladri da mettere al tappeto. Insomma almeno tutti una volta nella vita abbiamo sognato da piccoli di non dover finalmente seguire le regole dei genitori facendo tutto ciò che ci passava per la testa. Non avete mai visto Mamma ho perso l’aereo? A parte il pensare “Dove diavolo avete vissuto fino ad ora?”, la trama come avete potuto notare è alquanto basic trattandosi di un film per bambini, anche se vi si celano lezioni più mature di quanto si possa pensare.
mamma-ho-perso-laereo4Siamo agli sgoccioli e Natale è alle porte, a Chicago la famiglia McCallister è nel pieno dei preparativi per la partenza a Parigi. Trattandosi di cinque figli e i due genitori, nella grande villa regna il caos più totale; ognuno è preso dalle proprie valigie e nessuno dedica tempo al piccolo della famiglia Kevin il quale non ha idea di come si prepari una valigia. Nessuno lo tollera e viene continuamente preso in giro, come dimenticare una delle iconiche battute di questo film, che la sorella gli dici per schernirlo “Tu sei quello che i francesi chiamano Les incompétents“… intramontabile!
Già dalle prime scene possiamo capire il disagio di Kevin, sino ad immedesimarci in lui: il mondo degli adulti è schivo e crudele, ognuno pensa per sé e i bambini vengono visti solamente come dei mocciosi fastidiosi! Kevin non viene davvero preso in considerazione né dai fratelli e né tanto meno dai genitori, i quali addirittura non si accorgono di gettare erroneamente nella spazzatura il biglietto aereo del figlio nel tentativo di ripulire il guaio da lui combinato durante la cena. Kevin viene spedito in castigo nella mansarda e preso dalla rabbia grida quello che tutti noi almeno una volta da bambini abbiamo pensato “vorrei non avere più una famiglia!”
Il giorno seguente è finalmente arrivato il momento della partenza per Parigi, ma per via di un guasto elettrico nel quartiere la sveglia dei coniugi McCallister non suonabanner_home alone head count facendo rischiare a tutta la famiglia di perdere l’aereo. Tutti si preparano velocemente e nella fretta i figli vengono per sbaglio conteggiati correttamente e tutti corrono in aereoporto.
Inizia così la pellicola natalizia più famosa di sempre e che tutti noi portiamo nel cuore: Kevin si sveglia e si ritrova da solo in casa, non vedendo più la sua famiglia crede di averla fatta sparire magicamente grazie alle parole della sera prima… e la cosa non gli dispiace affatto!
Il susseguirsi del divertimento sfrenato di Kevin senza genitori è una delle scene più iconiche dei film cult anni ’90, dallo saltare sul lettone dei genitori mangiando e spargendo pop corn ovunque, correre per casa urlando, mangiare schifezze per cena guardando un film violento. Come dimenticare la famosa scena del film “Angels with Filthy souls”, dove il Gangster Johnny dopo aver freddato il famoso Cobra esclama «Tieni il resto lurido bastardo!» scena che, tra l’altro, non tutti sanno esser stata girata appositamente per Mamma ho perso l’aereo perché questo film visto dal piccolo Kevin in realtà non esiste. L’attore che interpreta Johnny, Ralph Foody, ha poi persino recitato nel sequel di questo finto film che vediamo in Mamma ho riperso l’aereo: mi sono smarrito a New York. 
241f7295-bab3-4413-93d6-0f28111acb3eLa spensieratezza e il divertimento sfrenato senza famiglia di Kevin vengono, però, minacciati dall’arrivo di due ladri i quali puntano proprio la villa dei McCallister come “gallina d’oro” dei loro furti natalizi. La scena in cui Kevin realizza che i due uomini in realtà sono dei ladri, è quella in cui Marv ed Harry per poco non investono il bambino il quale immerso nei suoi pensieri non si accorge dell’arrivo del camion. La curiosità bizzarra che si cela dietro questa scena è che venne girata al contrario, partendo dall’urlo spaventato di Kevin e con il camion che procede in retromarcia in modo da rendere la sequenza più sicura per il giovane attore Macaulay Culkin.
Il piccolo Kevin non si lascia intimorire dai due ladri e si fa trovare a casa preparato ad accoglierli con numerose trappole che, diciamoci la verità, nella realtà sarebbero state decisamente mortali per i due uomini. Insomma, la maniglia della porta incandescente? avrebbe fatto perdere decisamente la mano ad Harry… il ferro da stiro in faccia a Marv? gli avrebbe rotto le ossa del volto… il lanciafiamme sulla testa di Harry? Morte certa!
Ma a noi poco importava, facevamo comunque il tifo per Kevin e non vedevamo l’ora dihome-alone-spider-face_zzaapj vedere cos’altro avesse in serbo per i due ladruncoli, come la scena della tarantola sul volto di Marv in cui lancia un urlo terrorizzato. La sequenza in realtà venne girata chiedendo all’attore di simulare un finto urlo in modo tale da non spaventare l’animale, l’urlo poi venne montato in seguito.
Insomma, di certo da Kevin non abbiamo imparato come montare trappole per mettere al tappeto ladri, come dicevo ad inizio articolo il senso del film è un altro.
Possiamo imparare che la paura non ci lascia quando diventiamo adulti, ma bisogna rischiare per ottenere risposte perché in ogni caso ne sarà sempre valsa la pena.
Possiamo imparare che anche se le persone a noi care a volte ci fanno perdere la pazienza tanto da desiderare di non vederle più, la solitudine non è mai una bella cosa.
A volte quel chiasso che ci dà tanto fastidio, è la cosa pi preziosa che abbiamo!

 

Buon Natale,
PluffaCalderone

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Recensione || Morgana di Michela Murgia

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Essere Morgane significa proteggere il proprio valore anche quando tutto intorno a te
ripete che non ne hai.

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Uno dei primi articoli che ho postato qui nella mia piccola stanza, riguardava quanto la routine di quel momento preciso della mia vita mi stesse prosciugando. Mi sentivo un involucro vuoto il cui unico scopo era alzarsi al mattino e percorrere la strada che separava casa mia dal mio lavoro d’ufficio, per poi attendere pazientemente la fine della giornata e percorrere la stessa strada al contrario. Così, giorno dopo giorno sempre le stesse azioni proprio come in quel vecchio film con Bill Murray, Ricomincio da capo.
Iniziai a vedere uno spiraglio di luce nei libri, nella lettura e soprattutto nella scrittura, cosa che mi è piaciuta fare sin dalle scuole e che in qualche modo mi è sempre calzata a pennello, proprio come un vestito cucito su misura.
Fu così che aprii, quasi per gioco, il blog in cui ora scrivo con tanto amore e dedizione, anche se inizialmente non fu sempre rose e fiori. Le critiche e le osservazioni, spesso fatte da chi amavo, non mancavano mai e alla fine mi ritrovavo sempre col mettermi da sola in discussione arrivando a modificare il mio modo di parlare, i miei interessi e persino le mie letture e lo stile delle mie recensioni.
IMG_0665Sono passati ormai tre anni da quell’articolo e di cose ne sono cambiate, soprattutto la maniera in cui vedo me stessa, la me lettrice, la me scrittrice e me come donna.
In un certo qual modo sono grata a quel periodo perché mi ha aiutata a capire chi sono davvero e che, a dispetto delle critiche alle quali sono stata sottoposta, credo davvero nelle mie doti e capacità. Una visione tipica da Morgana.
Già da tempo seguo Michela Murgia sui social e mi è bastato davvero poco per identificarmi in ogni sua singola parola, ma con Morgana mi ha completamente conquistata.
Avevo sentito parlare del suo podcast tenuto insieme a Chiara Tagliaferri, ma quando con mia grande sorpresa mi è stato regalato il libro non potevo che partire proprio da questo, dalla raccolta di dieci biografie. “Storie di ragazze che tua madre non approverebbe”, ma che voi imparerete a conoscere, rispettare, idolatrare, imitare tanto da portare avanti a testa alta la vera essenza che si cela dietro al titolo Morgana.
Dieci sono le biografie selezionate dalla Murgia e dalla Tagliaferri, ma senza ombra di dubbio una mi è entrata dentro, marchiandomi del fuoco che contraddistingue una vera strega che si rispetti. Il podio per quanto mi riguarda va alla storia di Moana Pozzi, seguita  poi da Tonya Harding e Vivienne Westwood.

 

Nella cornice di questa morale cattolica fortissima e ipocrita, tutta a sfavore delle donne, per una come Moana Pozzi i guai sono già un destino scritto. Lei infatti non solo ha le pulsioni, ma vuole farne un mestiere e non ha alcuna intenzione di praticarlo nell’ombra. In un mondo binario dove puoi essere solo santa o puttana, lei di diventare santa non ha mai avuto l’intenzione, anche se proveranno a proporne la beatificazione, dopo la morte.

 

La vita di Moana Pozzi è controcorrente, fuori dagli schemi che la società impone e contro l’etica che le stesse donne all’epoca si imponevano di dover seguire; ma nonostante ciò il senso di ribellione volto a spezzare le catene di questi ridicoli schemi in cui vi era rinchiusa la figura della donna ed il suo ruolo, il sapore di una vita libera in cui sentirsi appagata e realizzata hanno reso Moana il mito che oggi conosciamo e la Morgana che difficilmente cancellerò dalla mia mente.
Ha letteralmente fatto suo un argomento tabù come il sesso, smantellandone ogni preconcetto tanto da esibirlo pubblicamente in ogni sua forma per costruirci pian piano le basi di lavoro sino ad erigere un vero e proprio impero incontrastato e svincolato da inutili schemi.
Ma Moana, da vera strega, non si è limitata solamente al mondo del sesso, ma ha fattoIMG_0664 sua anche la figura della donna, stravolgendone l’imposizione di moglie devota e dedita casalinga il cui unico scopo nella vita è soddisfare appieno il proprio marito a cui ha giurato fedeltà in salute e malattia. No, anche la donna ha desideri, passioni, sogni che possono essere altrettanto spinti ed erotici di quelli degli uomini. Anche la donna può essere altrettanto vogliosa ed avere pulsioni inimmaginabili.
Oggi, grazie all’impulsività e sensualità di Moana, ci sentiamo un po’ più libere di poter esprimere i nostri desideri sessuali, le nostre fantasie erotiche più perverse ed eccitanti senza vergogna o paura.
Ogni singola biografia ha eventi unici ed inimitabili che rendono ognuna di queste donne dei modelli da cui trarre ispirazione continua e nonostante la singolarità, le varie storie sono collegate tra di loro dallo spirito ribelle della Morgana. Nota di merito va senza ombra di dubbio allo stile adottato dalla Murgia e dalla Tagliaferri, abili maestre nel raccontare catturando totalmente l’attenzione del lettore non dimenticando di aggiungere quel tono sarcastico come marchio di unicità.
Lo vediamo con il capitolo dedicato a Moana, ma anche con Tonya Harding: un modello estremamente negativo, dove è tangibile la tossicità emanata dal suo personaggio nel mondo del pattinaggio, ma grazie alle parole e alle descrizioni delle autrici non possiamo che ammirare il coraggio e la caparbietà di Tonya nel persistere a voler raggiungere i suoi obiettivi e sogni da pattinatrice.
Lo vediamo con Vivienne Westwood, che nonostante le difficoltà economiche iniziali in un modo agguerrito e chiuso come quello della moda, se ne infischia delle tendenze e porta avanti a testa alta il suo stile trasandato e decisamente “brutto”, rivoluzionando il concetto del gusto tanto da diventare il marchio di fabbrica di famose band del calibro dei Sex Pistols.

 

Se sei donna è assai probabile che resterai solita stronza per sempre, specialmente se avevi i numeri per essere maestra sin da subito. Il mondo le donne le vuole vittime e persona loro il successo solo se rappresenta il riscatto da una condizione drammatica e svantaggiata. In loro tollera il talento solo se chiedono scusa per il fatto di averlo, bussando piano piano ed entrando in punta di piedi laddove gente che vale un terzo spalanca le porte con baldanza. […] Se scegli un perché invece che un per chi, vivrai e morirai da sola, le donne che scelgono se stesse perdono infatti il diritto alla felicità.

 

Quest’anno le mie letture si stanno incontrando tutte sullo stesso fronte, interamente a tema femminismo e senza ombra di dubbio Morgana di Michela Murgia rientra non solo tra le letture più belle ed emozionanti di questo 2019, ma tra ciò che mi definisce come lettrice e ciò in cui credo come donna. Perché spero, un giorno, di essere un briciolo della Morgana che sono rappresentate in queste pagine.

 

voto: 5

PluffaCalderone

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sk

In questa rubrica, dedicata ai film cult che hanno contribuito a rendermi la persona che sono oggi, inizio sempre raccontandovi qualche aneddoto della mia infanzia che in qualche modo si lega ad una di queste pellicole, andando a creare così uno dei miei tanti ricordi di bambina che custodisco gelosamente e con tanto affetto.
Gelosamente sì, perché quando penso a Inigo Montoya e Fezzik de La storia fantastica, al Re dei Goblin di Labyrinth, a Doc e Marty di Ritorno al futuro o a quel gruppo di perdenti dei Goonies, penso a tutti loro come ai miei più vecchi e grandi amici che tanto mi hanno fatto emozionare negli anni con le loro avventure.
Dei tanti film che ho visto nella mia vita, molti sono gli attori che ancora oggi seguo assiduamente; ma tra tutti ce né uno al quale ripenso con grande affetto e ammetto con tanta malinconia e occhi lucidi: Robin Williams.
A casa mia, in quel corridoio lungo e stretto dove io e mio fratello avevamo dedicato uno spazio interamente riservato alle videocassette, non sono mancate quelle con protagonista l’attore più multiforme di sempre e a due dei suoi film sono particolarmente affezionata: Jumanji (ma di questo avremo modo di parlare più avanti) e Hook – Capitano Uncino.
Delle tante di cui sono avvenute negli ultimi anni, la morte di Robin Williams fu quella che mi sconvolse e segnò maggiormente e non nego che tutte le volte che lo rivedo sul grande schermo un groppo difficile da mandar giù mi si forma in gola.
Su Instagram ho voluto indire una votazione tra, appunto, Jumanji ed Hook ma poco importa che abbia vinto il ragazzo volante perché nel mio cuore risuonano sempre i tamburi di quel gioco con le filastrocche e con gli animali selvaggi che scorrazzano liberamente. E nello stesso e identico modo dentro di me riecheggiano quelle grida di bimbi sperduti che in coro esultano BANGARANG!
Nel famoso remake del 2003, la voce adulta di Wendy nella scena finale dice “Tutti i bambini diventano adulti… tranne uno!” e se invece ci fosse un finale diverso? Un finale in cui Peter Pan diventa un vecchio adulto uomo d’affari, dimenticandosi delle avventure con la sua Wendy, Trilly e i bimbi sperduti sull’Isola che non c’è? Ecco la strepitosa idea di uno dei film più iconici di Steven Spielberg.
Robin Williams, nei panni dell’ormai cresciuto Peter Pan, è un’uomo che vive per i suoi affari e con il telefonino sempre a portata di mano tendolo perennemente occupato con un lavoro che lo porta a trascurare la famiglia.
C_2_fotogallery_3004187_6_imageNonostante i figli Jack e Maggie vogliano ottenere a tutti i costi l’attenzione e l’amore del padre, Peter assiste alla loro crescita tramite le videocassette delle loro recite o delle partite di Baseball aumentando così in particolar modo il risentimento del piccolo Jack. Nonostante le incomprensioni con il figlio, tutti insieme partono per Londra in occasione dell’inaugurazione dell’ospedale per gli orfani dedicato alla 92enne nonna Wendy. Un’interpretazione degna della sua fama quella di una Maggie Smith all’epoca appena 56enne, calata però nei panni della nonnina piena di acciacchi e costretta a muoversi con l’aiuto di un bastone, nota di merito anche all’abilità dei truccatori che la resero esteticamente perfetta per il ruolo.
Non dimenticherò mai la scena in cui tutta la famiglia entra in casa di nonna Wendy, ripercorrendo quelle mura in cui sia Peter che la moglie Moira trascorsero la loro adolescenza fino ad innamorarsi. E’ proprio in questa occasione che facciamo la conoscenza di Tootles, uno dei primi orfanelli ospitati da Wendy, intento a cercare le sue “rotelle”, dettaglio su cui torneremo a breve.
Il viaggio sembra procedere per il meglio, ma il mondo di Peter fatto di scartoffie e chiamate interminabili anche durante quella stessa vacanza a Londra, però, viene sconvolto quando durante l’inaugurazione i figli spariscono misteriosamente e al loro posto viene lasciato un messaggio intimidatorio scritto su pergamena, firmato Giacomo Uncino. E’ in questo momento che nonna Wendy, decide di rivelare a Peter le sue vere origini cercando di fargli ricordare chi è davvero: Peter Pan.
Peter, ovviamente, non crede alle parole della nonna 92enne e spera nell’aiuto della polizia; quando improvvisamente in casa piomba più veloce di un fulmine Trilly, entusiasta nel ricongiungersi al suo vecchio amico.
Ho sempre trovato Julia Roberts splendida nei panni di Campanellino, con quel taglioMV5BMTk5NTA5Mjk5NV5BMl5BanBnXkFtZTgwMzg2NjI5MDE@._V1_SY1000_CR0,0,1504,1000_AL_ corto da ribelle e le gambe lunghissime sotto quel vestitino sgualcito, ma evidentemente non fu tanto adorabile anche per i suoi compagni di scena che la soprannominarono TinkerHELL, creando un gioco di parole da Tinkerbell. A quanto pare la dolce fatina talmente piccola da aver spazio per un solo sentimento alla volta, era intrattabile sul set durante le riprese avanzando spesso numerose richieste bizzarre, come quella di avere un assistente personale con l’unico ed importante compito di pulirle i piedi date le sue numerose scene scalza.
Ma tornando a noi, Peter non la ricorda e soprattutto non le crede, pensando di avere una terribile e strana allucinazione; cosa che comunque non demoralizza Campanellino che lo trascinerà a forza sull’Isola che non c’è.
Ed ecco che prende vita la straordinaria avventura intitolata Hook, la quale nonostante siano passati 28 anni dalla sua uscita, rimane una delle migliori pellicole targate anni ’90 che emozionò milioni di persone. E pensare che Spielberg non aveva grandissime aspettative su questo suo lavoro, tanto che numerosi anni dopo dichiarò “Non sapevo quello che stavo facendo, e ho cercato di nascondere le mie insicurezze in una produzione di qualità, anche a livello di ambienti. Più insicuro mi sentivo, più grandiosi e colorati i set diventavano.”  E fortuna che si sentì insicuro perché dal momento in cui Peter si risveglia sull’Isola che non c’è, assistiamo ad uno dei set più elaborati e colorati di quegli anni.
Possiamo camminare nel covo dei pirati, dove predominano il rosso, marrone e nero.

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Tutto è pomposo, dai pirati che grugniscono e sputacchiano, alle dame di compagnia dal trucco pesante e rinchiuse in ambiti settecenteschi sfarzosi dalle gonne esageratamente larghe. Ma una ciurma che si rispetti, deve avere anche un Capitano alla sua altezza e nessuno è meglio di Capitan Uncino.
Non appena viene avvistato l’uncino, portato su un cuscino di velluto rosso dal prode Spugna, ogni pirata inizia ad acclamare il proprio capitano e la sua entrata in scena è degna del suo interprete. Dustin Hoffman è esilarante e magnetico, amato e allo stesso tempo temuto dalla sua ciurma. Con Hoffman la scelta è vincente, nonostante non fu comunque il primo della lista, in quanto la parte venne inizialmente proposta ad un poliedrico David Bowie che purtroppo (o per fortuna, dipende dai punti di vista) rifiutò.
Peter esce allo scoperto per salvare i suoi figli tenuti prigionieri da Uncino, desideroso di vendetta nei confronti di quel Pan che gli tagliò la mano e la diede in pasto al coccodrillo. Ma qualcosa nel suo piano va storto, Uncino non tiene in considerazione il fattore tempo e rimane deluso nel ritrovarsi di fronte un Peter Pan vecchio, grasso e privo dei ricordi del passato. Nonostante ciò, raggiunge un accordo con Trilly alla quale vengono concessi solamente 3 giorni per rimettere in sesto Peter e per riportare a galla i suoi ricordi.
Come abbiamo detto, il set di Hook è uno dei più colorati e dettagliati di quegli anni tanto da non farci vedere solamente l’angolo di Isola che non c’è riservato ai pirati, ma ecco che veniamo trasportati nel covo dei bimbi sperduti: tutto è selvaggio, vige un caos di colori mischiati tra loro e ogni cosa è rudimentale, dai letti, agli attrezzi, le armi, persino i vestiti. Non dimenticherò mai quella sorta di monopattino con il quale entra in scena Rufio, uno dei miei personaggi preferiti insieme al paffuto Carambola.
Tutto è estremamente esagerato nel covo dei bimbi sperduti, i quali nonostantee1cc7212f90e77de89c3e8fe9b3ae9d2 inizialmente non credano che quel vecchio sia Peter Pan, alla fine lo riconoscono per chi è davvero e decidono di aiutarlo a riprendersi i figli.
Come dimenticare la scena della cena con i bimbi, dove inizialmente Peter non vede nessuna pietanza sul lungo tavolo, ma non appena riscopre il suo lato fanciullesco ed inizia a giocare con i bimbi sperduti, magicamente sul tavolo si materializzano le portate fatte di colori talmente sgargianti da risultare quasi fluo.
E se ci pensate è proprio questo il significato del film, crescere accettando tutte le sfide e le difficoltà che comporta, ma non dimenticando mai che siamo stati bambini e quella spensieratezza che contraddistingue il periodo dell’infanzia. Spielberg ci serve così  su un piatto d’argento questa morale tanto semplice con la scena della cena al covo dei bimbi sperduti e con la scena finale di Tootles che ritrova le sue “rotelle”, ossia le sue biglie con le quali giocava da bambino e che non altro rappresentano i suoi ricordi felici.
Perché ricordate che crescere non significa la fine delle nostre avventure… Vivere può essere una meravigliosa avventura.

sk

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billy

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«Come funziona? Vi parlate a voce alta o nella vostra testa? Sono parole o pensieri?»
Arthur si strinse le mani. 
«Succede in tutti e due i modi. A volte è una cosa interna, e in tutta probabilità nessun altro se ne accorge. Altre volte, di solito quando siamo soli, è decisamente ad alta voce. Credo che se qualcuno ci stesse guardando penserebbe che siamo assolutamente matti.»

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La psiche umana è una delle cose più complesse al mondo. La nostra mente è un labirintico sistema nervoso fatto di neuroni e cellule, talmente contorto e oscuro da esser stato oggetto di studio dei più famosi pensatori e filosofi della storia.
Capita a tutti di ritrovarsi, magari anche inconsciamente, a parlare da soli. Forse perché presi dalla moltitudine di impegni che occupano la nostra giornata, improvvisamente iniziamo a stilare un elenco delle priorità ad alta voce magari ponendoci anche degli orari da rispettare. O quando in balia della fretta dei preparativi per uscire, non troviamo il cellulare e parlando da soli lo si cerca per tutta casa, o ancora quando recitiamo a noi stessi l’elenco della spesa proprio come se fosse una vecchia poesia imparata tra i banchi di scuola.
Esempi che detti così alla rinfusa possono sembrare del tutto normali, una routine quotidiana che riempie le nostre giornate.
Ma non si riduce solamente a questo. Lo stesso Pirandello ci espone il concetto di maschera: tutti noi recitiamo un ruolo in base alle situazioni che la vita ci sottopone ogni giorni e ogni ruolo che si rispetti esige una maschera adeguata da indossare in modo tale da essere così perfettamente presentabili agli occhi della società in cui viviamo.
A fronte di ciò, viene spontaneo chiedersi: parlare da soli è sempre sinonimo di normalità? O ancora, recitare un determinato ruolo mascherandosi in modo tale da superare determinate situazioni, o semplicemente per essere accettati, è normale?

Qualche settimana fa, mi trovavo al libraccio in zona Romolo, forse il più grande di Milano. La particolarità di questo libraccio è sicuramente la miriade di libri impilati l’uno sopra l’altro creando un percorso a colonnati sul pavimento dei lunghi corridoi, dando così un aspetto ancora più magico di quanto non lo sia già.
Vagavo tra quegli IMG_0135scaffali colmi di libri usati e non, senza cercare un titolo in particolare quando il mio sguardo si sofferma sulla copertina di un libro, la cui unica particolarità sta nella rappresentazione di un pavimento a scacchi bianco e nero. Non è il titolo a colpirmi nell’immediato, ma la dicitura al suo fianco “Un uomo, 24 personalità: la storia vera che ha sconvolto l’America.”, mi sono bastate poche righe di trama per farmi correre alla cassa e portare a casa con me Una stanza piena di gente di Daniel Keyes.
Una storia vera che a partire dagli anni ’70 ha portato alla luce un problema delicato e all’epoca ancora ignoto come quello della Personalità multipla, creando un caso giudiziario che ha letteralmente diviso l’opinione pubblica d’America in due fazioni: i credenti e gli scettici.
Il 27 ottobre del 1977 Billy Milligan viene arrestato dalla polizia dell’Ohio con l’accusa di aver rapito, violentato e derubato tre studentesse universitarie. Non ci sono dubbi sulle prove schiaccianti che lo inchiodano e i suoi reati precedenti non giocano a suo favore, ma durante la perizia psichiatrica richiesta dalla difesa qualcosa non torna. A volte, sia negli atteggiamenti che nel modo di parlare, sembra di avere di fronte persone differenti come un adolescente schivo, altre volte l’accento diventa londinese e i modo di fare è altezzoso e saccente e altre ancora sembra impaurito come un bambino di 8 anni o addirittura meno.
La perizia non ha dubbi su Billy, il ragazzo è affetto da un gravissimo disturbo dissociativo dell’identità: nella sua mente vivono 10 personalità distinte da un nome diverso, età e nazionalità differenti che durante la vita quotidiana di Milligan interagiscono tra loro e addirittura prendono il sopravvento portandolo a commettere azioni al di fuori del suo controllo.

«Penso sia importante che conosciate Regan», sbottò Arthur. «Avete aperto il vaso di Pandora, e a questo punto penso che dovreste alzare del tutto il coperchio. […]»
[…] Arthur spostò la sedia in fondo alla minuscola sala colloqui, si sedette di nuovo, e i suoi occhi diventarono distanti, come se stesse guardando dentro di sé. Le labbra si muovevano, la mano si sollevò di scatto per toccarsi la guancia. La mascella si contrasse. Poi cambiò posizione, la schiena dritta di Arthur si rilassò e il suo corpo assunse la postura accovacciata e aggressiva di un combattente guardingo. 
«Non giusto. Non bene svelare segreto.»

Ecco che Billy diventa la prima persona nella storia giudiziaria americana a ricevere una sentenza di non colpevolezza per infermità mentale, scatenando un caso mediatico.
Se dalla perizia, però, sono emerse solamente 10 personalità distinte perché sulla copertina ne vengono conteggiate 24? E’ proprio in questo sconcertante numero che sta l’incredibile verità, in quanto durante il ricovero di Billy in un istituto specializzato pian piano emergeranno coloro che vengono definiti gli indesiderabili, altre 14 personalità ritenute troppo pericolose e per questo prontamente nascoste dalle altre personalità nei meandri della mente di Billy, il quale viene tenuto “addormentato” in modo tale che le persone possano vivere al suo posto.
Le prime pagine del libro sono caratterizzate dall’elenco di tutte e 24 le personalità, il quale non si riduce solamente ad una mera lista in ordine alfabetico, ma Keyes specifica dettagliatamente le caratteristiche di ciascuno: nomi, età, etnie, caratteristiche fisiche e comportamentali e persino le diverse abilità che caratterizza ciascuno di loro.
C’è Arthur, il londinese con la puzza sotto il naso e la passione per lo studio della medicina il quale si proclama “capo gruppo” ponendo regole e assegnando compiti a ciascuno, sarà proprio lui a decretare chi classificare come indesiderabile e negandogli così l’opportunità di “prendere possesso” del corpo di Billy. C’è Regan, lo iugoslavo nominato come guardiano dell’odio e pronto a venir fuori in caso di necessità di difesa personale e dell’intero gruppo. C’è Allen che uscirà per raggirare le persone o Tommy nominato l’artista della fuga. Ogni personalità è unica e complessa nei minimi dettagli, ma sicuramente quella che salta all’occhio del lettore è senza dubbio quella de Il Maestro, ossia la somma di tutte e 23 le personalità: Billy tutto in un pezzo.
Sarà proprio grazie all’aiuto del Maestro che Daniel Keyes riuscirà a realizzare il libro che tutti noi oggi possiamo leggere e rileggere, un lavoro che iniziò quando Keyes incontrò Milligan ventitreenne.

Il dottor Caul lo fissò con lo sguardo perso per un istante. « Mi dispiace. Spero che non le crei problemi rispondere a qualche domanda. »
« Assolutamente no. E’ il motivo per cui sono qui, per aiutarla in ogni modo possibile.»
« Mi piacerebbe rivedere con lei i fatti essenziali riguardanti le diverse personalità…»
«PERSONE, dottor Caul. Non “personalità”. Come Allen ha spiegato al dottor Harding, quando ci chiamate “personalità”, abbiamo l’impressione che non accettiate il fatto che siamo reali. Questo renderebbe difficile la terapia.»

All’epoca non fu facile cercare di ricostruire in ordine cronologico i fatti, in quanto le diverse personalità avevano buchi di memoria causati in base a quale di loro prendeva il possesso del “posto” (ossia quando uscivano sostituendosi al Billy reale). Ognuno aveva i propri ricordi personali senza condividerli con le altre personalità, fattore che inizialmente rese complicato il lavoro di Keyes.
Per sua fortuna il Maestro (Billy tutto in un pezzo) prese vita ed emerse per fare chiarezza su quei buchi di memoria che corrispondevano a dettagli della propria vita risalenti addirittura all’infanzia di Milligan, dando così l’opportunità a Keyes di ricostruire minuziosamente la sua intera vita.
Ebbene sì, perché il libro è diviso in tre parti: la storia si apre con i reati di sequestro e stupro che portarono all’arresto di Billy e quindi alla scoperta dell’infermità mentale.
Nella seconda parte abbiamo il Maestro come voce narrante, il quale inizia il suoIMG_0137 racconto dagli episodi traumatici che portarono Billy a sviluppare le diverse personalità pronte ad uscire sul posto in base alle diverse situazioni. Una seconda parte scioccante, in cui emergono traumi che nessun bambino al mondo dovrebbe mai provare come la morte di un padre o la violenza sessuale con atti di sodomia da parte di un genitore adottivo, il grave bullismo a scuola e la violenza psicologica. Il libro si conclude con il terzo capitolo, dove torniamo al momento del ricovero di Billy dopo la sentenza e assistiamo a come gli psicologi cerchino di farlo fondere definitivamente con tutte le sue personalità in modo tale da guarirlo cercando così di dargli una vita degna.
Un lavoro di ricostruzione pazzesco per Daniel Keyes, il quale oltre alle varie interviste con Billy/Maestro nel corso degli anni, parlò anche con sessantadue persone che in un modo o nell’altro entrarono in contatto con Milligan. Non solo, si servì di registrazioni effettuate durante le sedute di terapia e consultò le oltre centinaia di lettere che Billy scambiò con la sua ex fidanzata durante i due anni di carcere avvenuti prima dei fatti con cui si apre il romanzo. Insomma un lavoro magistrale e dettagliato, che per quanto mi riguarda pone Daniel Keyes al di sopra delle capacità di molti altri autori letti sino ad ora nella mia vita.

Una lettura affascinante e allo stesso tempo destabilizzante se si pensa che gli avvenimenti raccontati in quattrocento e passa pagine sono tutti reali ed è proprio questo uno dei fattori con i quali mi sono ritrovata spesso a scontrarmi durante la lettura. Nonostante il fascino dovuto ad un argomento così complesso come la personalità multipla, mi sono ritrovata spesso in difficoltà in quanto la storia raccontata da Keyes ti mette di fronte a diverse prospettive che spesso non vengono tenute in considerazione. La mia difficoltà è stata nel non saper prendere una posizione rispetto ai reati commessi da Billy Milligan, il ché attenzione non significa che una persona malata di mente debba essere risparmiata dal pagare per eventuali crimini con una giusta condanna; semplicemente ho trovato difficile provare rabbia o risentimento nei confronti di un uomo incapace di essere pienamente responsabile delle proprie azioni non per sua scelta ma per una malattia mentale.
Durante la narrazione, sono molte le persone che spinte anche dall’incitamento dei media negano il reale problema mentale di Billy, additandolo come attore da premio oscar e arrivando anche a tentare alla sua vita. La gente che assiste ai notiziari non comprende che determinati traumi possono, purtroppo, segnare gravemente la psiche umana e a fronte di ciò bisogna fare il possibile per curare queste persone e reintegrarle nella comunità dando loro modo di redimersi.

« Si preoccupano più dello stupratore che delle sue vittime. »
Quando si cerca di aiutare delle persone mentalmente disturbate, insisteva Rosalie Drake alle colleghe infermiere, bisogna mettere da parte i sentimenti di vendetta e preoccuparsi dell’individuo.

 

Ho comprato Una stanza piena di gente d’impulso e sono proprio questi gesti che rendono la vita di noi lettori inaspettata e colma di sorprese. Non conoscevo Daniel Keyes, ma nonostante ciò non mi ha delusa e sono lieta che ci siano al mondo persone come lui che fanno tutto ciò che è in loro potere per donare al mondo storie da cui imparare e di cui far tesoro.

PluffaCalderone

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«Immaginate», disse Arthur, « che tutti noi, tante persone, molte delle quali non le avete mai incontrate… ci troviamo in una stanza buia. In mezzo a questa stanza, sul pavimento, c’è una chiazza di luce. Chiunque faccia un passo dentro la luce esce sul posto, ed è fuori nel mondo reale, e possiede la coscienza. Questa è la persona che gli altri – quelli fuori – vedono e sentono e a cui reagiscono. Gli altri possono continuare a fare le solite cose, studiare, dormire, parlare o giocare. Ma chi è fuori, chiunque sia, deve fare molta attenzione a non rivelare l’esistenza degli altri. E’ un segreto di famiglia.»
[…] 
«Ma dov’è Billy?» chiese Christene. Lui scosse gravemente la testa, si portò un dito alle labbra e sussurrò: «Non dobbiamo svegliarlo. Billy sta dormendo».
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Da che ho memoria, a mia madre è sempre piaciuto cucire. Ricordo di un mobile a cassapanca nel salone della mia casa da bambina, dentro vi erano i più svariati articoli da cucito: ferri per la maglia di ogni genere e lunghezza, gomitoli di svariati colori, uncinetti, stoffe e molteplici numeri di riviste da cucito. Non avendo ancora il grande potere dei tutorial su Youtube, mia madre comprava ogni genere di rivista dedicata al cucito, per poterne studiare ogni dettaglio e segreto.
Capitava spesso, quindi, che andassi all’asilo o da mia nonna con dei vestitini unici al mondo fatti su misura per me; ma il ricordo più bello è legato sicuramente ai vestiti per Carnevale. Non c’è mai stato un solo anno in cui mia madre andasse a comprarne uno già fatto e confezionato, no signore! Veniva lì da me e mi diceva «Amore, da cosa ti vuoi vestire quest’anno per Carnevale?» e che ci crediate o no lei con tanta pazienza esaudiva ogni mia richiesta, persino quando stranamente le chiesi un vestito da marinaio (ebbene sì, in mezzo ad un mare di principesse ero l’unica bimba dai capelli lunghi e biondi che lanciava coriandoli in uniforme).
Uno dei primissimi vestiti di Carnevale che chiesi fu l’abito rosa di Aurora della Bella Addormentata nel bosco. Era il mio cartone Disney preferito in assoluto, lo mettevo a ripetizione imitando per filo e per segno ogni movimento e parola di Aurora dall’iniziosleeping-beauty alla fine del cartone. Consumai letteralmente la videocassetta, fino a quando mia madre mi realizzò l’abito che ancora oggi conserviamo gelosamente come un vecchio cimelio di famiglia. Ecco perché, quando nel lontano 2014 uscì Maleficent, mi precipitai al cinema con il cuore colmo di emozioni, ricordi e altissime aspettative su un film interamente dedicato ad una delle migliori Villain di casa Disney.
Se c’è una cosa che non sopporto dei fandom in generale è il giudicare sempre positivamente solo perché si è fan di quel determinato franchise… NO! A mio avviso proprio perché si è fan, bisogna essere il più oggettivi possibili e giudicare per la qualità  e i contenuti che ci vengono proposti e non solamente perché spinti dall’affetto; ecco perché per quanto mi riguarda Maleficent fu un vero e proprio buco nell’acqua, una delle delusioni peggiori che la mia parte cinefila abbia mai ricevuto.
Sono passati 5 lunghi anni dal primo film e ora nelle sale cinematografiche è uscito Maleficent – Signora del Male e il mio giudizio non è cambiato di una sola virgola.
Scatenerò le ire di molti di voi con il mio astio nei confronti di questa saga, ma mi spiace proprio non riesco a trovare nulla di salvabile nemmeno nel nuovo capitolo.

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Sono passati 5 anni da quando la fata che lanciò il sortilegio sulla principessa dai capelli dorati, riuscì anche a liberarla da quel sonno profondo. Aurora è diventata Regina della Brughiera e quel vissero felici e contenti sembra realizzarsi concretamente quando Filippo chiede ufficialmente la mano di Aurora.
La Bella Addormentata non vuole rinunciare, però, alle cure e all’affetto della sua Fata Madrina e le chiede quindi di cenare pacificamente alla corte dei genitori di Filippo in modo da consolidare i rapporti con la nuova famiglia.
Nonostante gli sforzi di Malefica nel mostrare le sue buone intenzioni, Ingrid la madre di Filippo, continua imperterrita ad istigarla sino a quando la cena si conclude nel peggiore dei modi.
Ora, finite le doverose introduzioni alla trama, vi starete chiedendo perché abbia tutto questo astio nei confronti di questa pellicola… Indubbiamente gli effetti speciali sono pazzeschi, il mondo di Aurora è una vera fiaba dove ogni creatura della Brughiera è resa alla perfezione in ogni singolo dettaglio: dalle tre fate che faticosamente hanno cresciuto per 16 lunghi anni la splendida Aurora, agli gnomi passando infine ai grotteschi uomini albero. Indubbiamente Angelina Jolie è divina nei panni della fata più potente e temuta della Brughiera, ogni sua movenza ed espressione rapiscono lo spettatore, il tutto amplificato dagli outfit curatissimi e ricercati che rendono Angelina ancora più splendente di quanto non sia già… ma la fama/bravura di un attore o l’elevata qualità degli effetti speciali bastano per rendere un film un capolavoro? Per quanto mi riguarda è un grande NO, le ragioni sopra elencate non mi bastano per giudicare positivamente Maleficent – Signora del Male un prodotto godibile.
6ca8ab7afc0dd3217a826e0a0f7614e6Purtroppo l’hype è stato ingigantito dal trailer il quale, proprio come per il primo capitolo, raggruppa le uniche scene di “tensione” e azione mostrando un film potenzialmente ricco e dinamico, quando in realtà una volta giunti in sala per la visione si rivela essere prolisso, colmo di scene “tappa buchi” e noioso, se non per gli ultimi 20 minuti di azione.
Nemmeno gli unici due colpi di scena sono stati di grande effetto: chi sarà il reale cattivone di turno a questo giro? E come farà Malefica a risolvere la situazione?
Ragazzi non disperatevi, la risposta a queste domande le avrete dopo dieci minuti di visione del film, a far fatica a mettere insieme le componenti del “misterioso puzzle” composto unicamente da due pezzi sarà soltanto la nostra Aurora (tralasciando Filippo il cui unico scopo è fare presenza).
Inutile dirvi che di “Evil” nelle azioni di Malefica c’è ben poco e niente, il classico tutto fumo e niente arrosto, cosa che non mi ha sorpreso dato che stiamo parlando di un film Disney. Poteva essere la protagonista di un prodotto di casa Topolino essere realmente cattiva e spietata come la favola animata? Chiaramente no, in quanto si perderebbe tutto quell’alone fastidiosamente buono e magico che la Disney ha portato avanti imperterrita negli anni.
L’unica nota lievemente positiva è lo spazio che hanno voluto dedicare alla scoperta delle origini di Malefica, mostrando il luogo dove vive il suo popolo e dove si nasconde coltivando un odio sempre più grande nei confronti degli umani.
Questo era uno spunto interessante, se non fosse che tutta la storia delle origini viene appena accennata in massimo 5 minuti di scena per poi venire immediatamente chiusa nel cassetto del dimenticatoio e dedicarsi così alle scene di fomentazione da ultras contro gli umani.
C’è chi mi ha detto “Beh ma cosa c’è di male se Malefica è buona? Insomma un cattivo può anche redimersi!”, certamente non lo metto in dubbio però vorrei porvi un quesito:maleficent-2
Se il film in realtà si fosse chiamato “La Bella Addormentata nel bosco”, secondo voi la cara e vecchia Disney avrebbe comunque optato per una Malefica buona? Non credo, come non lo è stato per gli ultimi live action usciti quali Aladdin  o La Bella e la Bestia, nei quali abbiamo Jafar e Gaston giustamente cattivi come nei cartoni che conosciamo e amiamo. E perché pure loro non sono buoni allora? Penso che l’unica risposta plausibile sia perché non sono i reali protagonisti dei film, come nel caso di Malefica.
Insomma purtroppo non mi reputo soddisfatta di questa seconda visione, ma non tutto è perduto; potrò sempre riguardare con immenso piacere la vera e unica Signora del Male old school targata 1954.

Voto: 2

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CANTA LA BALLATA DELLA ZUCCA CON NOI

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Quando ero piccola venivo spesso descritta come una bambina coraggiosa. Ricordo mia madre parlare di me con delle sue amiche, raccontando loro quanto fossi differente da lei che era una gran fifona mentre io adoravo guardare film di paura.
Andavo da mio fratello di nove anni più grande di me chiedendogli di vedere un film horror, lui sorridendo mi diceva «Guarda che poi questa notte fai gli incubi!», ma riuscivo sempre a convincerlo che non avrei avuto paura (mentendo spudoratamente!).
Inutile dire che nonostante non sia un horror, uno dei miei film preferiti era ed è ancora oggi Nightmare before Christmas di Tim Burton. Ogni volta che inserivo la cassetta nel videoregistratore, mia madre guardava disgustata le immagini sullo schermo della TV e diceva «Ma come fanno a piacerti questi pupazzi spaventosi? E non ti fa paura lo scheletro?», ma io ero totalmente ipnotizzata da quell’atmosfera lugubre e malinconica della città di Halloween.
Ed è proprio in questo luogo che veniamo caldamente invitati a visitare, non importa se maschio o femmina o la nostra età; la città di Halloween è aperta a tutti, pronta a mostrare il suo magnifico orrore insieme ai suoi strambi abitanti.
2204131b0fc0e05d17e50bd862fae52fUno spaventapasseri immerso nell’oscurità e dalla spaventosa faccia di zucca ci mostra la via per raggiungere la città, la quale è sovrastata da un cimitero che bisogna per forza attraversare per giungere alle porte della cittadina. Dei fantasmi ci preannunciano che si tratta del paese di Halloween, un luogo dove ogni abitante ha un’abilità speciale che potrebbe far rabbrividire dal terrore chiunque.
E’ chiaro come i cittadini rappresentino le classiche paure che caratterizzano l’infanzia di ogni bambino: c’è il mostro sotto il letto che langue in continuazione e ti ipnotizza con quegli occhi rossi più del sangue, le vecchie streghe coi volti raggrinziti dalle rughe, naso aquilino e voci stridule intente a sorvolare sulla scopa le vie della città, il classico clown che invece di portare gioia ai bambini li terrorizza con quel suo trucco raccapricciante oppure un’ombra che gira di notte seminando terrore nel buio più totale.
“Senza ribrezzo che vita è? Tutti qui viviamo così nel paese di Halloween” cantano in coro gli abitanti della città, con orgoglio e a testa alta ed è proprio questo il momentoCorpse-Kid-nightmare-before-christmas-226806_720_438 in cui capiamo che in realtà si tratta di personaggi semplici e genuini, che amano il luogo dove vivono e spaventano non per cattiveria ma unicamente per gioco, come dei bambini che vanno di porta in porta a fare dolcetto o scherzetto. 
Spaventare è la loro più grande passione, che li spinge a mettere dedizione e creatività in tutto ciò che fanno in modo da realizzare ogni anno la festa di Halloween più magica che ci sia. E che festa sarebbe se non ci fosse il Re delle zucche a concludere la celebrazione in grande stile?
Ho sempre trovato buffo come nonostante i cittadini siano tutti abilmente esperti nell’arte dello spavento, all’entrata in scena di Jack tutti rimangano meravigliosamente terrorizzati dalle sue movenze sul cavallo in fiamme. E’ proprio con questo dettaglio che capiamo quanta influenza abbia il Re delle zucche sugli abitanti, i quali concludono i festeggiamenti con una standing ovation interamente dedicata a Jack.

Jack Skellington è sempre stato il mio personaggio preferito di tutto il film, scelta scontata direte voi ma non lo è di certo solo perché stiamo parlando del protagonista.
Il Re delle zucche ha molteplici sfaccettature che lo hanno sempre reso emblematico ai miei occhi, basti notare la sua entrata in scena: sotto le mentite spoglie di un innocuo spaventa passeri in sella ad un cavallo di paglia, Jack improvvisamente si rianima prendendo fuoco e ammaliando tutti con il ballo della zucca sino a quando non si tuffa nella fontana della piazza dalla quale riemerge finalmente con il suo reale aspetto, acclamato da una pioggia di applausi.
nightmare-04Questa scena dove vediamo un Jack dominante e spavaldo, si contrappone con quella successiva nel cimitero dove il nostro Re delle zucche ci rivela la sua amletica crisi esistenziale cantando “Re del blu, Re del mai” (interpretata da Renato Zero che grazie alla sua voce ci trasporta in quello spleen che attanaglia il terrificante Jack). E’ qui che ci ricrediamo, comprendendo che dietro quella spavalderia in realtà si nasconde la profonda depressione di un Re che non trae piacere dal suo potere, stanco ormai di quel Halloweenesco loop senza fine che si resetta ogni 31 ottobre, riavvolgendo il nastro per ripartire da capo ancora e ancora.
Un film della durata di 1 ora e 16 minuti per i quali ci sono voluti tre anni di lavoro composti da un minuto di registrazione a settimana, 24 frames al secondo per un totale di 110.000. Un’ora e 16 minuti di film fatto di personaggi strambi, realizzati grazie alla genialità degli artisti, che li disegnarono utilizzando la mano non dominante accentuando in questo modo le fattezze orripilanti di ciascun cittadino. Minuti di pellicola in cui non riusciamo a comprendere il reale carattere di Jack: lo vediamo percorrere una camminata quasi senza fine tra le lapidi del cimitero, notiamo la sua depressione prendere vita sul suo volto, sino a quando non si imbatte nella porta che lo conduce alla città del Natale dove tutto è magico, incredibile e finalmente stimolante.
Un dolce antidoto allo spleen che lo possedeva ed è proprio da qui che prende vita l’avventura di Jack che tutti noi ormai conosciamo a memoria.

Chissà se quando il volto di Jack apparve realmente per la prima volta sul grande schermo, Tim Burton avesse già in mente di costruire un intero mondo a lui dedicato.
Perché, per chi non lo sapesse, Nightmare before Christmas non fu il primo debutto del Re delle zucche ma bensì fece la sua prima apparizione nel 1988 in un altro film cult di Tim Burton, ossia “Beetlejuice – Spiritello porcello” (del quale parleremo ampiamente in questa rubrica, non disperatevi). In una delle apparizioni finali dello spirito più QGKvoVyindesiderato di sempre, Beetlejuice emerge da sotto un tavolo con un outfit che richiama chiaramente le giostre con i cavalli a dondolo, in cima al suo cappello a forma di tendone da circo spunta il volto scheletrico di Jack.
Ma è solo uno dei tanti easter-eggs che il Re del cinema gotico ha voluto nascondere tra le diverse pellicole: facendo molta attenzione possiamo scovare Jack nel film Coraline, quando la finta madre prepara la colazione per Coraline si può notare il suo teschio sorridente nascosto proprio nel tuorlo dell’uovo o ancora in Alice in Wonderland, tra la stampa del papillon indossato dal Cappellaio Matto.

In contrapposizione al personaggio di Jack abbiamo il Bau Bau, forse l’unico vero cattivo della città di Halloween. L’incubo più grande di ogni bambino, il buio che vaga per le strade e che prende la forma di un’enorme sacco che racchiude tutto ciò che per eccellenza viene considerato raccapricciante: insetti.
Il Bau Bau è un’antagonista magnetico, con una voce totalmente blues e caratterizzato dalla dipendenza per il gioco d’azzardo, tanto da giocarsi perfino la sua stessa vita.
Infine tra i personaggi più di rilievo in tutto il film abbiamo la dolce Sally, una bambola di pezza segretamente innamorata di Jack la quale rispecchia la nostra voce della coscienza di cui tutti noi sappiamo l’esistenza e che sentiamo forte e chiaro, ma che preferiamo ignorare abbracciando caldamente gli errori più grandi che potremmo commettere.
mickey_0Sally è l’unico personaggio che da buoni consigli per tutti, ma che non riesce a seguirli per se stessa sentendosi perennemente perduta e malinconica.
E’ incredibile come dietro queste atmosfere e personaggi dalle fattezze negative, ci sia dietro uno studio di animazione del calibro della Disney dove tutto è colorato e fastidiosamente buono. Gli easter-eggs non mancano nemmeno in questo caso dove troviamo i personaggi di Topolino e Paperino stampati sui pigiamini dei due bambini che vengono brutalmente aggrediti dai giocattoli donati Santa Jack.
Fortunatamente il buon vecchio Burton riuscì ad imporsi sulla maggior parte delle decisioni che diedero vita a Nightmare before Christmas, una delle pellicole a cui tiene maggiormente e di cui racconta sempre con grande affetto, soprattutto di come nacque tutta l’idea di base: Burton si trova a passeggiare tra gli scaffali di un negozio durante i giorni successivi ai festeggiamenti di Halloween. Si guarda attorno un po’ sovrappensiero, quando la sua attenzione viene catturata dai commessi indaffarati a sostituire gli accessori e le decorazioni di Halloween con quelli di Natale.
Ed ecco che la sua immaginazione prende vita e inizia ad elaborare il capolavoro che è Nightmare before Christmas. Come i cittadini alla fine del film scoprono la neve rimanendo meravigliati da tanta bellezza, così noi continuiamo a stupirci da quante emozioni la città di Halloween sa donarci ancora oggi nonostante il trascorrere inesorabile del tempo.

PluffaCalderone

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Quando ero piccola mi piaceva giocare alla maestra d’asilo con i miei peluche.
Li prendevo tutti dal mio letto per portarli uno ad uno sotto la scrivania della cameretta, la quale nella mia immaginazione doveva essere l’aula del mio asilo e lì mi immedesimavo nel ruolo della maestra.
Tra tutti i miei peluche, però, ce n’era uno a cui ero più affezionata. Non so bene il perché, in fin dei conti non aveva nulla di speciale. Era un semplice orsacchiotto dal pelo bianco, che indossava un pigiamino rosa e un cappellino a forma di cono alla cui punta  era cucito un pompon tutto bianco.
Non c’era un motivo particolare, era un semplice orsacchiotto ma io lo adoravo talmente tanto da avergli dato il nome di uno dei personaggi del mio film preferito in assoluto: Doc di Ritorno a futuro.
La mia passione per i film nasce molto prima di quella per la lettura ed ho davvero tantissimi ricordi della mia infanzia legati ad ognuna delle pellicole che porterò in questa rubrica. Ogni singolo film che analizzerò qui ha per me un valore affettivo che non riesco ad esprimere fino in fondo, ognuno di loro mi ha formata e resa la persona che sono perché che ci crediate o no, io ho letteralmente consumato i nastri delle videocassette che popolavano il salone di casa mia.
Quando ripenso a quegli anni, sento ancora forte e chiara la voce di mia madre che mi dice «Ancora Jumaji?» o «Ancora La storia fantastica?» oppure «Ancora Labyrinth?».

Tutte queste storie oltre ad aver influenzato tante persone come me, hanno fatto la storia del cinema e il film che ho selezionato per questo secondo Moviecult è di certo laentertainment-2014-10-leonard-sheldon-raj-big-bang-theory-main pellicola più iconica della produzione anni ’80 e senza ombra di dubbio la più intramontabile. Ancora oggi nonostante siano trascorsi ben 34 anni, gli vengono attribuiti innumerevoli omaggi: dalle action figure per i collezionisti incalliti, al fun club ufficiale sempre presente ad ogni fiera, alle innumerevoli citazioni cinematografiche come ad esempio la celebre scena nel telefilm The big bang theory, dove il gruppo di scienziati cerca di ricostruire i vari collegamenti tra le diverse epoche riportate nella trilogia (1985, 1955, 2015 e 1885).

Quanti di noi almeno una volta nella vita, si sono ritrovati a pensare di aver voluto incontrare i propri genitori da adolescenti per vederli magari tra i corridoi di scuola, come si integravano con gli altri ragazzi o come vestivano?
E pensare che senza questa fantasia la pellicola di Ritorno al futuro non sarebbe mai approdata sui grandi schermi.
Infatti, in un giorno come tanti altri, Bob Gale (padre ideatore del concept) è a casa dei suoi genitori in Missouri per concedersi una breve vacanza con lo scopo di distrarsi dai pessimi risultati ottenuti al botteghino dalle sue ultime produzioni. Per passare il tempo, trova dei vecchi annuari scolastici di sua madre e suo padre da ragazzi e scopre dettagli nuovi sull’adolescenza dei suoi genitori, come ad esempio che il padre era stato caposcuola.
Ecco che la sua mente inizia a viaggiare con l’immaginazione, focalizzandosi su quel padre che ai suoi occhi era sempre apparso come uno sfigatello sempliciotto.
Chissà come sarebbe stato se fosse andato a scuola con il suo vecchio, se si fossero piaciuti e se non fossero andati d’accordo. Vi ricorda qualcosa?
13aPoco dopo il soggiorno a casa dei suoi, Gale si ritrova a parlare con Robert Zemeckis (regista del film) della sua fantasia su suo padre. Il regista però, divertito da questo racconto, aggiunge ulteriori dettagli come: Immagina invece se tua madre, che ha sempre dichiarato di non aver mai baciato un ragazzo durante gli anni scolastici, in realtà fosse un’adolescente in preda agli ormoni e un po’ svampitella?
Me li immagino già come due grandi amiche del cuore alle quali viene la stessa idea contemporaneamente e scambiandosi una semplice occhiata si trovano d’accordo.
Ecco come nacque il capolavoro cinematografico che tutti noi ancora oggi amiamo.

Un film costruito sulla base di concetti complessi di fisica e scienza, ma che vengono riproposti allo spettatore in maniera semplice ed efficace. Marty è un ragazzo di diciotto anni, all’apparenza un adolescente come tanti altri che ha la passione per lo skateboard, suona in una rock band e ha una fidanzata dolce e premurosa, che lo sprona a non perdersi d’animo davanti alle prime difficoltà.
Come può diventare quindi il migliore amico del Dott. Emmett Brown, uno scienziato pazzo ed emarginato dal resto della società? Non ci è dato saperlo, ma d’altronde non è importante, perché ci bastano poche scene per capire che l’amicizia che li lega è vera e sincera, destinata a durare nel tempo.
Ed è proprio in nome di questa amicizia che Doc invita Marty ad assistere alla sua più grande invenzione: una DeLorean trasformata in una macchina del tempo.8172d560-f2b5-0133-800e-0e31b36aeb7f
Tutto sembra funzionare, fino a quando nel pieno dell’esperimento arrivano dei terroristi Libici a vendicarsi per il plutonio rubatogli da Doc, necessario per far funzionare la macchina.
Durante l’assalto, Doc viene ucciso e Marty in preda al panico sale sulla DeLorean e inizia a guidare per mettersi in salvo, arrivando però alle 88 miglia orarie ed attivando inconsciamente il viaggio indietro nel tempo, fino all’anno 1955.

Ed è proprio il tempo il vero protagonista del film, che viene riportato in scena molteplici volte, basti pensare alla prima sequenza: siamo a casa di Doc, la telecamera mostra molto lentamente l’arredamento circostante.
Le pareti sono colme di orologi e sveglie di ogni tipo, che scandiscono il trascorrere dei minuti con quell’incessante ticchettio sincronizzato, sino a quando iniziano a suonare tutte contemporaneamente all’ora preimpostata dallo scienziato il tutto concludendosi a ritmo della canzone Back in time.
Ma non si limita tutto a questa scena, pensiamo anche con quanta insistenza Marty ribadisce al giovane padre George McFly l’orario di incontro nel parcheggio della scuola per il ballo di fine anno o a tutto il piano ideato da Doc per far sì che la DeLorean raggiunga le 88 miglia orarie proprio nell’orario preciso in cui il fulmine colpirà l’orologio della torre e permettendo così a Marty di tornare nel 1985.
BBTF2Nonostante il successo intramontabile, Gale e Zemeckis non ebbero vita facile per via dei pregiudizi causati dai loro precedenti insuccessi. Infatti non tutti sanno che l’idea iniziale non prevedeva una DeLorian come macchina del tempo, considerata anzi come tra le peggiori macchine in circolazione. In origine la bozza del film prevedeva come macchina del tempo un frigorifero adoperato nei test atomici durante gli anni 50.
Vi immaginate i ragazzini di allora, che per imitare il viaggio nel tempo di Marty McFly entrano nel frigorifero, con alte probabilità di rimarvici chiusi dentro?
Di fronte a questa grottesca visione, fortunatamente Zemeckis riuscì a far cambiare l’idea rielaborando l’estetica della DeLorian, scelta soprattutto per via delle portiere laterali che la facevano assomigliare ad un’astronave. Idea che si rivelò vincente, dato che ancora oggi rimane uno dei simboli più famosi ed apprezzati dai fan, tanto da essere riutilizzato ancora al cinema (vi dice niente Ready Playerone?)

Gli anni passano e Ritorno al futuro non smette mai di stupire e dare insegnamenti, ma uno in particolare è alla base di tutta la trilogia, ossia il percorso di crescita che ti porta dal semplice adolescente a persona matura: lo vediamo nel giovane George McFly che daMartygeorgenotes ragazzino timido ed introverso, acquisisce sicurezza in se stesso e nelle sue capacità che lo portano a diventare uomo adulto e scrittore di successo. Lo vediamo nella giovane Lorraine, che da frivola e civettuola ragazzina alla quale importa solamente l’aspetto esteriore, capisce che quello che conta davvero in una persona è ciò che ha dentro, innamorandosi così del suo vero amore.
Ma soprattutto lo vediamo in Marty, che da adolescente si vede costretto a comportarsi da adulto responsabile cercando di badare ai suoi giovani genitori, dando loro saggi consigli e diventando un modello di riferimento.

Non spenderò parole sulla recitazione in questo film, perché ragazzi non c’è bisogno che arrivi io per dirvi che è impeccabile. Michael J. Fox è perfetto nei panni di Marty McFly, quasi ci rivediamo in lui quando spiega e rispiega dei concetti basilari al padre o quando ne prende le difese dai bulli della scuola.

Che dire, invece, di Christopher Lloyd? Emmett Brown, rinominato scherzosamente Doc, sembra essere il suo alter ego.
suo favore, la chioma brizzolata tipica dello scienziato pazzo e quella sua mimica facciale pazzesca che rende unica ogni situazione del film.
Back-to-the-Future2Come dimenticare quel suo “Grande Giove”, o la sua reazione divertita nello scoprire che nel futuro di Marty un attore sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti, scena che fece realmente divertire Ronald Regan quando guardò il film per la prima volta.
Il presidente attore divenne talmente fan della pellicola, tanto da riportarne una citazione durante il suo discorso sullo Stato dell’Unione del 1986 affermando che “Dove stiamo andando non avremo bisogno di strade”, ultima battuta di Doc durante la scena finale del film.

Dubito che ci sia ancora qualcuno che al giorno d’oggi non abbia visto Ritorno al futuro e spero vivamente che non sia così, perché tutti noi abbiamo bisogno di film immortali come questo.
Tutti noi abbiamo bisogno di film così vitali e di un amico come Doc Brown che ci dia l’importante insegnamento che il futuro non è ancora stato scritto, quello di nessuno.
Il vostro futuro è come ve lo creerete, perciò createvelo buono.

PluffaCalderone

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ZAFON

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Quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro si perde nell’oblio, noi, custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno.

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E’ molto tempo che non scrivo qui in questo piccolo angolo di mondo, in questa piccola stanza che mi ero creata e alla quale avevo dedicato davvero tutta me stessa.
Nonostante i miei sforzi e sacrifici, mi sono ritrovata spesso a fare i conti con giudizi negativi e critiche, anche da parte di persone che amavo.
Ho iniziato pian piano a trascurare questa stanza sino quasi a dimenticarla, riducendola alla fine ad un misero angolo buio e impolverato.
Mi sono ritrovata a dover imparare una nuova routine che tornasse a far girare la mia vita, con l’aiuto di nuove persone che con un modo tutto loro hanno fatto emergere dei lati del mio carattere che per anni avevo sepolto nella speranza di apparire interessante agli occhi di gente che amavo e che credevo ricambiasse il mio amore.
Questa stanza era diventata proprio come il Cimitero dei Libri Dimenticati ne L’ombra del vento, colma di recensioni che nessuno ricorda e dimenticate da tempo; d’altronde io stessa ero stata la prima a farlo.
Poi il romanzo di Zafón mi venne regalato da qualcuno che realmente iniziò a credere in me, con un’unica e sincera richiesta “leggilo e non te ne pentirai”.

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Di recente ho avuto modo di raccontare come è nata la mia passione per la lettura, il momento preciso in cui capii che quelle piccole parole stampate su carta erano vitali come l’aria. L’ombra del vento mi ha riportato a quel ricordo della mia adolescenza.
Il romanzo di Zafón mi ha fatto riscoprire quella sensazione di perdita e mancanza che si sente non appena si gira l’ultima pagina di un libro mozzafiato, l’equivalente dell’aver perso i tuoi migliori amici. Daniel, Fermín, Bea, Don Gustavo Barceló e lui, soprattutto lui, Julián Carax mi sono mancati dal momento in cui ho chiuso il libro, riponendolo con tutto il mio affetto sulla libreria.

Non avevo mai letto nulla di Zafón, nonostante avessi sempre visto il suo romanzo nelle librerie e ora dopo aver finito L’ombra del vento posso affermare a gran voce di essermi pentita di non aver dato da subito il giusto interesse a questo scrittore.

Mio padre si chinò su di me e, guardandomi negli occhi, mi parlò con il tono pacato riservato alle promesse e alle confidenze. «Questo luogo è un mistero, Daniel, un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e l’anima di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie ad esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza.»

La storia del piccolo Daniel ne L’ombra del vento è una storia che potrebbe benissimo adattarsi a tutti noi lettori che pian piano abbiamo attraversato il nostro percorso di crescita. Il passaggio da bambini ad adolescenti, ma soprattutto il cambiamento come lettori maturi e responsabili.

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Proprio come noi, Daniel passa da bambino curioso ed affascinato da quei mondi fatti di carta e parole, a piccolo uomo perspicace e ostinato a raggiungere i suoi obiettivi.
All’età di undici anni, nel giorno del suo compleanno Daniel viene portato dal padre in un luogo misterioso: il Cimitero dei Libri Dimenticati. Un labirinto di libri salvati dall’oblio. Ma non si tratta di una semplice gita, infatti la visita ha lo scopo di far scegliere a Daniel quale tra le migliaia di libri adottare con la promessa di prendersene cura per sempre. Perso in quel labirantesco mondo di libri, Daniel viene attratto da un romanzo intitolato L’ombra del vento di un certo Julián Carax.
Il bambino rimane letteralmente rapito da quelle pagine, scritte da un autore avvolto dal mistero e sul quale nemmeno il più grande esperto libraio al mondo sembra sapere poco e nulla.
Il volume adottato da Daniel si scopre essere l’ultima copia dell’autore rimasta in circolazione e tutto riconduce ad una macabra figura, caratterizzata da un particolare odore di bruciato che lo circonda ovunque si trovi: Lain Coubert, il cui unico scopo è dare alle fiamme tutti gli scritti di Carax.

Inizia così quello che risulterà essere un romanzo thriller ricco di suspance, arricchito da personaggi bizzarri alternati da altri sui quali grava un oscuro segreto, come per la figura di Julián Carax sul quale gira tutta la vicenda.
Un coro di voci davvero unico, intrigante e ben costruito, ognuno dei quali partecipa con dei flashback che Daniel e l’inseparabile amico Fermín, un don giovanni dalla lingua sarcasticamente tagliente, cercheranno di comporre come un puzzle per venire a capo del mistero che aleggia su Carax e i suoi romanzi.

Esistono carceri peggiori delle parole. leggere è un’arte in via di estinzione. I libri sono specchi in cui troviamo solo ciò che abbiamo dentro di noi è che la lettura coinvolge mente e cuore, due merci sempre più rare.

A mio parere, i flashback sono la carta vincente che Zafón decide di porre sul tavolo da gioco. Come già accennato, ognuno dei personaggi legati alla vita privata di Carax contribuisce a ricostruire le vicende che hanno portato alla scomparsa dell’autore, e dei suoi volumi raccontando a Daniel la propria versione dei fatti.
I flashback sono dei veri e propri mini racconti all’interno della storia, lunghi e ricchi di dettagli davvero ben costruiti che fanno nascere nel lettore la curiosità e la voglia di far luce su tutta la faccenda. Sicuramente quello che mi è rimasto più impresso, è legato alle memorie che Nuria Monfort lascia a Daniel rivelando così dei colpi di scena davvero incredibili, il tutto attraverso la scrittura magristrale di Zafón, scorrevole e diretta ma non per questo poco intrigante. Lo stile dell’autore, pur essendo semplice, rapisce e ti porta ad attraversare le strade di Barcellona al fianco di Daniel, ammirando insieme a lui stradine particolari, a bordo di mezzi di trasporto tipici del 1945.
Zafón è stato sicuramente al centro di un successo editoriale, ma non per questo bisogna sottovalutare la sua scrittura reputandola “per la massa”, a mio parere il suo successo è più che meritato.
L’ombra del vento è una storia caratterizzata da una serie di eventi che scoppiano come mine creando una reazione a catena, causati da personaggi che si trovano nel posto giusto al momento giusto per dar vita a questo enorme e grandioso mistero su carta.

Una volta conclusa la lettura è nato un pensiero che mi ha scaldato il cuore. Mi piace pensare che, proprio come quella reazione a catena nata dalla fantasia di Zafón, L’Ombra del vento sia arrivato tra le mie mani al momento giusto, grazie alla persona giusta, entrata nella mia vita a causa di forze maggiori necessarie. Coincidenze? No… non credo proprio.

                                                  voto: 5

                                                                                                                                        PluffaCaderone

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Titolo: L’Ombra del vento
Autore:Carlos Ruiz Zafón
Editore: Oscar Mondadori
Numero di pagine: 419
Prezzo: 12,50 euro
Trama: Una mattina del 1945 il proprietario di un modesto negozio di libri usati conduce il figlio undicenne, Daniel, nel cuore della città vecchia di Barcellona al Cimitero dei Libri Dimenticati, un luogo in cui migliaia di libri di cui il tempo ha cancellato il ricordo, vengono sottratti all’oblio. Qui Daniel entra in possesso del libro “maledetto” che cambierà il corso della sua vita, introducendolo in un labirinto di intrighi legati alla figura del suo autore e da tempo sepolti nell’anima oscura della città. Un romanzo in cui i bagliori di un passato inquietante si riverberano sul presente del giovane protagonista, in una Barcellona dalla duplice identità: quella ricca ed elegante degli ultimi splendori del Modernismo e quella cupa del dopoguerra.

L’autore

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Carlos Ruiz Zafón (Barcellona, 1964) ha raggiunto il successo nel 2002 con L’ombra del vento, l’inizio della saga del Cimitero dei Libri Dimenticati. Le sue opere sono tradotte in più di 40 lingue.

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La cosa più bella dell’essere bambini è dare libero sfogo alla fantasia. Insieme agli amici più leali immaginare grandi avventure arricchite da pericoli e misteri da risolvere.
Un classico uscito dall’immaginario di ogni bambino è sicuramente il partire alla ricerca di un antico tesoro pirata, consultando una vecchia mappa colma di arcani indizi.
Ecco perché The Goonies era, e sicuramente lo è ancora oggi, il film preferito di ogni bambino; reso tale dai suoi protagonisti.
Non credo che debba spendere più di tanto nel raccontarne la trama perché grazie al cielo è stato trasmesso per anni, semplicemente qualche indicazione:
Un gruppo di bambini, i Goonies appunto, trova nella soffitta di uno di loro, Miky, una mappa del tesoro appartenuta al pirata Willy l’Orbo. Sulle prime preso come un gioco, il gruppo di amici si ritroverà sulla strada che conduce al tesoro, inseguiti però dalla temibile Banda Fratelli i quali, scoperta l’esistenza del tesoro, cercherà in tutti i modi di2014-04-goonies-cast-1000w mettere i bastoni tra le ruote al gruppo di ragazzini. Insomma, un mix di ingredienti perfetti che danno vita ad un film mozzafiato e vero, in quanto traspone su pellicola ciò che la fantasia dei bambini può creare.
L’aspetto che lo rende vincente è indubbiamente l’immedesimazione che lo spettatore ha con i bambini, sì perché i Goonies siamo noi. Esattamente come i bambini, siamo annoiati dalla quotidianità e per uscirne, diamo sfogo alla nostra creatività.
Tutto viene visto come un gioco, eliminando la semplicità dalla routine anche dagli aspetti più banali come l’apertura del cancello di casa di Miky, il quale si aziona solamente tramite un meccanismo complicatissimo o i sistemi di salvataggio di Data, i quali invece di essere scattanti e semplici, sono dei veri e propri rompicapo.
Gli adulti stessi non sono credibili nel loro ruolo in quanto, esattamente come bambini, sbagliano continuamente a pronunciare termini (i tanto amati traccobbetti).
Il film è chiaramente diviso in livelli: tutto parte dal salotto di Miky, il quale rappresenta la noia di ogni bambino, per poi passare alla soffitta colma di oggetti impolverati e di conseguenza misteriosi; il posto perfetto per una mappa del tesoro. Infine si scende nelle grotte, dove tutte è pericoloso.
Chunk and sloth TV STORE ONLINEI livelli non sono casuali, ma ben pensati per far svolgere ai bambini un percorso non solo avventuroso, ma anche di crescita. Nel bel mezzo della noia, viene scoperta la mappa che chiaramente rappresenta una speranza, la quale può essere raggiunta solamente superando gli ostacoli e le paure. Il personaggio che meglio incarna queste paure è indubbiamente Sloth, terzo fratello di Jake e Francis membri della Banda Fratelli, ingiustamente rinchiuso e tenuto in catene per via della sua deformità.
Ogni bambino ha paura di ciò che non può vedere e infatti Slot nelle prime scene viene sempre mostrato di spalle, mettendo bene in vista solamente le catene che  lo tengono imprigionato.
Le paure però, se affrontate con coraggio, si superano sino ad arrivare ad una crescita interiore, crescita che nel film è rappresentata principalmente da Chunk il quale affronta faccia a faccia Sloth fino a comprendere che dietro al suo aspetto spaventoso, in realtà si nasconde un Goonie buono e leale.
Tutto è ben studiato partendo proprio dal nome Goonies, il quale è un mash up tra GOON DOCKS, nome del quartiere in cui vivono i protagonisti e il termine Goony che nello slang americano significa sempliciotto; motivo per cui Miky nel film ripete sempre “siamo solo dei poveri Goonies”.
Ma i dettagli non sono limitati esclusivamente al nome del gruppo, alcuni 20-things-you-probably-didnt-know-about-the-goonies-12particolari sono stati inseriti per dare una maggiore caratterizzazione ai personaggi. Un esempio lampante è la cintura multifunzione di Data sulla quale è riportato il numero 007, un doppio riferimento sia all’agente segreto più famoso nel mondo del cinema e sia all’indole del ragazzo a voler imitare le prodezze di James Bond.
I dettagli sono stati accuratamente studiati tanto quanto gli omaggi presenti, come la scritta RUBE G. 83 riportata sul marchingegno utilizzato per aprire il cancello di casa di Miky, citato a inizio articolo., un omaggio a Rube Golberg, famoso fumettista che nelle sue storie era solito inserire macchine complicatissime volte a svolgere una semplice azione. La marea di omaggi non si ferma qui, come la scena in cui Chunk chiama la polizia per denunciare le minacce della Banda Fratelli, ma il poliziotto non crede ad una sola parola ricordando al ragazzo una sua chiamata dove affermava di essere stato assalito da dei mostriciattoli che si moltiplicavano se bagnati dall’acqua facendo riferimento ad un altro caposaldo quale I Gremlins, o l’R2D2 seminascosto sul vascello di Willy l’Orbo, o ancora il “volo” di Brand con la bici un chiaro riferimento di Spielberg ad E.T. (entrambi film svolti sotto la sua regia).

 

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Lo stesso personaggio di Brand è un vero e proprio omaggio, in quanto il nome completo è Brandon Walsh e immediatamente ci ritroviamo catapultati nel mondo di Beverly Hills 90210 prodotto da Darren Starr, stesso produttore dei nostri amati Goonies.
Analizzando i personaggi, è impossibile non considerare Willy l’Orbo uno dei protagonisti più importanti e il motivo è semplicissimo: Willy è il primo vero Goonie.
Proprio come i protagonisti è un emarginato, un sempliciotto ed ecco perché è il Goonie originale. Il vascello è uno dei dettagli che rende affascinante il suo personaggio, oltre che l’intero film. Battezzata Infierno, la nave utilizza per le riprese era un vero vascello lungo 32 metri, ispirato alla nave di Erroll Flynn nel film Lo sparviero del mare: ogni singolo fotogramma che compone le scene finali è stato girato realmente a bordo.
Una buffa curiosità è che la nave non venne mostrata agli attori fino all’effettiva realizzazione goonies-pirate-ship1dell’ultima scena e non appena il gruppo di ragazzini la vide l’eccitazione fu talmente esorbitante che alcuni di loro si fece sfuggire delle parolacce per lo stupore tanto che la scena dovette essere rigirata una seconda volta.
Non c’è da stupirsi su quanto Spielberg fu magistrale nelle citazioni, ma non mancò certo di alcune “gaffe”, come a fine film il riferimento di Data al combattimento nella grotta con la piovra, scena in realtà tagliata o la difficoltà di Andy a leggere le note musicali sulla mappa per suonare l’organo fatto di ossa, difficoltà dovuta a delle bruciature avvenute in una scena sempre tagliata in cui alla mappa venne dato fuoco dal bulletto Troy.
E nemmeno il soundtrack è da sottovalutare, un’avventura che tutti i bambini sognano accompagnata dalle note musicali e dalla voce di Cindy Loper.
Un lungo sproloquio su uno dei film che hanno contribuito a rendermi la persona che sono oggi, fondamentale nella mia crescita e che, nel caso decisamente impossibile che non l’abbiate visto, non ve lo consiglio perché DOVETE vederlo, punto.
E mi raccomando, ricordate che i Goonies non dicono mai la parola morte!

 

PluffaCalderone

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